Talmud Shabbat 79a e Luca 16:1-13

In quest'articolo ho già commentato la parabola del fattore infedele, riportata in Luca 16.1-13, e qui aggiungo una considerazione in più, tratta dal Talmud (bShabbat 79a).

Di sabato è consentito trasportare fuori casa cose senza valore, ma non cose che abbiano un valore, seppur minimo. Si può pertanto trasportare quello che il Vangelo secondo Luca chiama "gramma" ed il Talmud (nonché l'ebraico contemporaneo) "sheter chov", ovvero un "pagherò", documento con cui una persona dichiara il proprio debito?

La risposta è che se il "pagherò" è valido ed esigibile, allora di sabato non lo si può trasportare; se è stato già pagato o non è esigibile, lo si può trasportare.

E che ci vuole, secondo la normativa talmudica, per renderlo esigibile? O il debitore ammette che il "pagherò" lo ha scritto lui, oppure (e questa è la procedura regolare), debitore e creditore si recano insieme in tribunale a convalidare il "pagherò".

Nel diritto italiano contemporaneo questa convalida sarebbe classificata come un atto di "volontaria giurisdizione", in quanto non c'è contrasto tra le parti, ma il loro accordo deve essere omologato da un giudice terzo, a garanzia di tutti.

Come avevo già evidenziato qui, il commentatore citato in Luca 16:1-13 si stupisce che il fattore convochi i debitori e chieda loro quanto debbono al padrone, e ritiene tal convocazione un'ammissione d'incapacità (il fattore avrebbe dovuto conoscere benissimo l'ammontare di ogni credito); credo però che la convocazione sia spiegata dalla normativa talmudica, se già vigente all'epoca di Gesù.

Penso che infatti il fattore abbia voluto concludere il suo mandato chiedendo a tutti i debitori del suo padrone di scrivere dei "pagherò", per rassicurare i debitori sull'ammontare dei debiti, ed il suo padrone che i crediti sarebbero stati pagati a scadenza (non so se codesti "pagherò" fossero all'ordine, ovvero cedibili con girata come le moderne cambiali). 

Doveva però convocare i debitori ed essere sicuro che in tribunale creditore e debitori fossero d'accordo sugli importi da pagare, altrimenti il tribunale non avrebbe convalidato proprio nulla.

A quel punto, che potevano fare i debitori? I debiti li avevano, e quindi dovevano scrivere i "pagherò"; contestare la cifra data dal fattore dicendo: "No, gli devo di più" non avrebbe avuto senso, perché capivano che il padrone aveva ancora piena fiducia nel suo fattore (pur avendo deciso di licenziarlo) ed in tribunale avrebbe dichiarato la cifra da lui indicata - oppure questo padrone avrebbe mandato il fattore a rappresentarlo, fidandosi ciecamente di lui.

Nell'articolo scritto nel 2014 sostengo l'ipotesi che il fattore avesse dichiarato i giusti importi, e che fossero stati dei debitori scontenti, per sostanziare l'accusa che il fattore avesse sperperato i beni del padrone, a dichiarare debiti molto superiori al vero - ma il fattore li rimette al loro posto, dimostrando giustizia e magnanimità.

Sicuramente, la procedura talmudica rendeva impossibile per il fattore raggirare il suo padrone con questo sistema, ed anche se il padrone loda "ton oikonomon tes adikias = il gestore della frode" per la sua scaltrezza, con il suo comportamento dimostra di aver piena fiducia in lui, e che il licenziamento non è stato motivato da disonestà.

Raffaele Yona Ladu


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