Agata Bielik-Robson e l'universalismo marrano


Sto cominciando a leggere l'articolo [0], che contrappone un universalismo ontologico (basato sul presupposto che esistano una "natura umana universale" ed una "ragione umana universale") nato con la filosofia greca, recepito dal cristianesimo, e schiavizzato dai reazionari del WC(F) per i loro scopi nefandi (il loro obbiettivo finale non sono le famiglie arcobaleno e le soggettività LGBTQIA+, bensì le religioni non cristiane, le confessioni non cattoliche, il pensiero politico non "sanfedista"), ad un "universalismo marrano", in cui l'universalità di un messaggio non è data dal conformarsi a categorie aprioristiche, ma un obbiettivo a cui tendere attraverso un lavoro che è anche di traduzione - per cui il contenuto interno di un messaggio, che può essere fortemente particolaristico come a volte lo è la "teologia" ebraica, si trasforma nell'interazione con altri acquisendo sempre nuove aperture.

L'autrice, Agata Bielik-Robson, attribuisce questa strategia a Walter Benjamin e Jacques Derrida nella formulazione attuale, ma ne rintraccia i prodromi nel marranesimo, in quanto i marrani dovevano velare la loro identità ebraica sotto una maschera cristiana - lei paragona la loro ebraicità ad una "lingua interna", in parte nascosta ed in parte splendente attraverso la "lingua straniera" che era la copertura cattolica che avevano adottato.

Il rapporto tra "lingua interna" e "lingua straniera" nell'ebraismo però è molto più antico e complesso: la Settanta è stata un tentativo (interessante, ma fino a che punto riuscito è materia di discussione da millenni tra ebrei e cristiani, e pure al loro interno) di esprimere un messaggio ebraico in lingua e categorie greche, ed i Targum mostrano che ad un certo punto ci si era resi conto che l'"hebraica veritas" (per mutuare un'espressione di Girolamo, non senza ironia, perché gli ebrei sanno che la verità non è necessariamente univoca) non era più immediatamente comprensibile agli stessi ebrei, ed occorreva esprimerla in un nuovo linguaggio.

Tra l'altro, il Targum Onqelos ha creato una curiosa situazione, in quanto gli ebrei ortodossi leggono due volte la settimana la Torah nel testo ebraico, ed una volta in quel Targum. Quella che doveva essere in origine una "lingua straniera" è diventata una "lingua interna" aggiuntiva - e non va dimenticato che gli ebrei amano chiarire le oscurità del testo ebraico con quel Targum (che è un utile riferimento anche per i biblisti non ebrei).

Esistono inoltre parti in "aramaico d'impero" già nella Bibbia ebraica - citazioni non impegnative o recezioni di culture straniere che hanno trasformato lo stesso messaggio ebraico?

La dicotomia di Agata Bielik-Robson è utile, ma non può essere applicata rigidamente perché già la storia ebraica obbliga a trascenderla. Usiamola, ma non assolutizziamola.

Edit: infatti, proseguendo la lettura, noto che Agata Bielik-Robson, citando il Derrida che ha scritto " Fede e sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione", avverte che non è mai esistita alcuna pura ed isolata tradizione religiosa o culturale, e che il confronto e l'ibridazione sono fondamentali per la sopravvivenza.

La dicotomia solo è uno strumento di lavoro, e le culture ossessionate dalla purezza e dalla difesa dalla contaminazione muoiono di malattia autoimmune (metafora di Agata Bielik-Robson, tratta da Derrida).

Altra opera interessante di Derrida citata è "Mal d'archivio", in cui si contrappone un "Giudaismo terminabile", troppo preoccupato della propria sopravvivenza e dei propri rituali, e che rischia davvero di diventare un reperto d'archivio, un fossile da museo, ad un "Giudaismo interminabile" che si mette in discussione, salta le "siepi attorno alla Torah", entra in rapporto con le altre tradizioni, facendo loro parlare ebraico, traducendo a rischio di tradire, e così rimane vivo e vitale.

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