L'AsperFamiglia Martin - 2/3 - Léonie

Ora passo al caso di Léonie Martin (1863-1941), terzogenita di Luis e Marie-Azélie Guérin; sembra un caso facile per me, in quanto è la persona della famiglia in cui l’autismo si manifesta più chiaramente, tantopiù che non è plusdotata come Thérese, e non può coprire le sue carenze con l’intelletto.

Purtroppo questo la rende bersaglio di pregiudizi non solo abilistici (alla sua biografa [1] spiace che lei abbia portato avanti dei comportamenti non standard fino a tarda età, anche se assolutamente innocui e compatibili con la regola monastica – le sue consorelle hanno avuto la saggezza di non intervenire [2]), ma anche dovuti a scarsa familiarità con l’autismo (i citati comportamenti non standard vengono attribuiti a dei “complessi” che non fu possibile risolvere – il concetto di “complesso” però è psicodinamico, e non è applicabile ad una condizione neurologica come l’autismo).

Perciò, parlando di Léonie devo fare anche advocacy, ovvero spendermi in difesa delle persone come lei.

La prima cosa che ricordo al lettore è che Tommaso d’Aquino disse: “Gratia non tollit naturam, sed perficit = La grazia non sopprime, ma perfeziona la natura” [3]; perciò sarebbe opportuno, esaminando la positiva ma lenta evoluzione del comportamento di Léonie, non darne tutto il merito a fattori sovrannaturali, ma ricordare che le persone autistiche maturano emotivamente più lentamente delle neurotipiche (mi sono sposato a 50 anni, e Léonie è entrata definitivamente nell’Ordine della Visitazione a 36, dopo diverse false partenze), e che quindi le doti naturali di Léonie non erano ben visibili quando era bambina o giovinetta, ma solo in età più matura.

Se ne erano accorte la madre e la sorella Thérese, prossime ognuna alla loro morte, che Léonie stava finalmente indirizzandosi credibilmente verso la vita consacrata e la santità, desiderio di tutta la famiglia e della stessa Léonie.

Cito solo alcuni dei molti episodi rilevanti per una diagnosi di autismo: ha cominciato a camminare e parlare tardi, ma ha ricuperato, per cui Léonie resta nel campo dell’autismo ad alto funzionamento; da piccola ebbe numerose malattie che ne guastarono la salute, tra cui pertosse, morbillo con convulsioni, ed un eczema purulento che ogni tanto si ripresentava (e le sarebbe costato l’ammissione nell’Ordine delle Clarisse, perché il loro ruvido saio ne avrebbe provocato il ritorno).

Era una bimba testarda e collerica, dolce ma disobbediente, pericolosamente impulsiva (a quattro anni mise una sedia sopra l’altra per prendere delle bottiglie di vetro sopra un mobile, ma ruzzolò cadendo sulle bottiglie, rompendole e sfregiandosi la fronte), abile ad imparare a memoria, ma che si agitava ogni volta che veniva interrogata, ed in presenza di altri bambini aveva dei seri meltdown – tanto che la madre disse che l’unico modo per mandarla a scuola sarebbe stato farla essere l’unica allieva della maestra.

La madre aveva una sorella monaca, Marie-Dosithée, dell’Ordine della Visitazione, e provò due volte a far studiare Léonie da lei, ma in entrambi i casi il tentativo si interruppe dopo breve tempo – ad onta della miglior volontà della zia, non era possibile farla stare in classe. Marie-Dosithée disse inoltre che era meno intelligente delle sue pari, ma il comportamento successivo mi fa essere meno drastico: penso che fosse meno pronta a rispondere, mancasse di abilità sociali, e qualche specifico disturbo dell’apprendimento le rendesse la vita difficile a scuola.

Educarla era una sfida: Marie-Dosithée aveva cercato prima di sgridarla ad ogni mancanza, ma non otteneva nulla, e si rendeva conto che non dava una bell’immagine di Dio continuando così, perciò cercò di prenderla con le buone dicendo che era fiduciosa che lei sarebbe diventata buona, e che alle mancanze si sarebbe rimediato – l’effetto fu durevolmente positivo, ma come già detto, insufficiente per farla rimanere tra le allieve delle Visitandine.

Léonie ebbe anche una grave sfortuna: una delle serve della famiglia Martin, Luise Marais, aveva deciso di tiranneggiare Léonie per controllarla meglio, minacciando severe punizioni se avesse disobbedito od avesse osato dire qualcosa alla mamma. Della serva si dice che mancasse di doti pedagogiche, fosse schietta in modo talvolta insolente, e collerica.

Questa descrizione mi fa pensare che anch’essa fosse nello spettro autistico (cosa che spiegherebbe come mai fu assunta e rimase a lungo a servizio dai Martin, affezionandosi genuinamente a Marie-Azélie), ma con un funzionamento ben inferiore a quello dei genitori e delle sorelle di Léonie – ed è più facile tiranneggiare le persone che persuaderle. In ogni caso, anche dopo la scoperta del misfatto, riuscì a rimanere a servizio, per assistere la madre di Léonie, affetta da un cancro alla mammella allora incurabile, fino alla sua morte – e con il patto di non rivolgere mai più la parola a Léonie e non occuparsi più di lei.

Dopo quest’episodio, i genitori e le sorelle di Léonie cercarono di raddoppiare le cure e l’affetto verso di lei, per restituirle la fiducia che avrebbe comprensibilmente perso verso la famiglia e verso Dio.

Si trattò di una cosa tanto lodevole quanto rara: gli autistici tra di loro si sopportano poco, e quando dei fratelli o delle sorelle sono nello spettro, di solito quelli che funzionano meglio disprezzano quelli che funzionano peggio. Nelle poche eccezioni alla regola, fratelli e sorelle nello spettro possono davvero essere una risorsa gli uni per gli altri – ma ovviamente non glielo si può pretendere, e dev’essere una cosa che nasce dal cuore.

Questo trattamento, pur del tutto aspecifico, aiutò Léonie a maturare dal punto di vista emotivo, e, come ho detto, sia la madre (morta nel 1877) che, con maggior sicurezza, Thérese (morta nel 1897), morirono sapendo che anche per Léonie sarebbe arrivato il momento di abbracciare la vita consacrata e santificarsi così, come tanto desiderava.

Dopo il tentativo con le Clarisse (le altre sorelle erano o sarebbero diventate carmelitane scalze, tutte nel Carmelo di Lisieux; ma l’idea che Léonie le raggiungesse non fu mai presa in seria considerazione perché la regola scalza era troppo dura per la sua salute), ci furono due false partenze con l’Ordine della Visitazione, quello della zia Marie-Dosithée; questi due fallimenti furono dovuti in parte alla cagionevole salute di Léonie, ed in parte (lo ammise generosamente lo stesso Ordine quando compilò il suo necrologio) al fatto che allora le novizie venivano immediatamente assoggettate a tutte le asprezze della regola, senza le mitigazioni che si sarebbero dimostrate opportune per i primi tempi.

L’ammissione definitiva avvenne nel 1899, e Léonie prese il nome di Françoise-Therese, unendo in sé il nome ed il carisma delle fondatrici degli ordini della Visitazione e del Carmelo Scalzo.

Delle molte cose che si raccontano di lei in monastero (sarebbe morta nel 1941), riferisco che la maestra delle novizie notò che lei aveva eccessivo riguardo per gli oggetti, e volle che lo perdesse. Questo riguardo esprimeva un tratto autistico, ma una monaca non deve attaccarsi alle cose del mondo; per questo la maestra delle novizie intervenne, e ci riuscì (a farle sopprimere l’espressione, non il tratto) così bene che Léonie, una volta diventata monaca professa ed attempata, poté dire ad una novizia preoccupata per aver rotto dei piatti: “Segno di vocazione. Stia serena!”.

Altre espressioni del suo autismo erano però estremamente opportune: aveva una fenomenale memoria, era molto attenta quando faceva l’economa, riordinava tutti gli oggetti, quando preparava il refettorio badava che a nessuna mancasse nulla, ed anche se nei primi tempi era molto lenta nel suo lavoro (per confezionare il suo primo sacchetto di reliquie, ci mise un’ora intera! Ed anche mangiando era lenta), lavorò infine perfino durante la ricreazione. Léonie, come la madre Marie-Azélie, ebbe la fortuna che tra i suoi tratti autistici non ci fosse menomazione della funzione esecutiva, che trasforma molte persone autistiche in maestre del disordine e della confusione.

Tre episodi mi paiono degni di nota. Il primo, che la sua biografa riferisce con malcelato piacere, fu quando un prete, curioso (come tanti) di conoscere la sorella dell’ormai Santa Teresa del Bambin Gesù, entrò in parlatorio chiedendo appunto di Suor Francesca Teresa. In un monastero di clausura chi è di turno in portineria sta dietro una barriera e non si lascia vedere – perciò il prete non sapeva che una delle monache lì dietro era proprio Léonie.

Ella rispose: “Vado a dirlo alla Madre, ma non credo che sarà possibile”, e prima di andarsene lasciando il prete con un palmo di naso, aggiunse: “Francamente, non ne vale la pena! Le assicuro che non ci perde nulla!”. Quando il prete capì che la monaca lo aveva beffato, uscì dal parlatorio e riferì il colloquio al cappellano del monastero; questi rise perché questo tipo di autodeprecazione era tipico di Léonie, e disse al collega che aveva incontrato proprio lei.

Un altro episodio simile fu quando fece un’ingegnosa e scherzosa proposta per risanare le finanze del monastero: “Mi metterei in parlatorio sopra una poltrona con un cartello: ‘Venite a vedere la sorella di Santa Teresa’. La gente pagherebbe il biglietto per entrare, avremmo molto successo … Ed all’uscita, i più avveduti protesterebbero: ‘Veramente, non valeva la pena pagare per vedere una vecchia befana!’”.

Due cose vanno dette dei due episodi: la prima è che il figlio di pietisti Immanuel Kant avrebbe commentato che, poiché le persone vanno considerate anche come fini e non solo come mezzi, andare a visitare una persona solo perché sorella di una santa è una chiara violazione dell’imperativo categorico. Il prete del primo episodio, ed il pubblico pagante a cui pensava Léonie nel secondo, non facevano una bella cosa.

Non credo che Léonie avrebbe potuto o voluto citare Kant; credo però che abbia pensato nel primo episodio: “Il padre cerca vanità: che edificazione può ricavare dall’incontro con la sorella di una santa? Inoltre, io sono una monaca di clausura – se ora sono in portineria è per servire le mie consorelle, non per espormi alla curiosità della gente”.

Un monaco maschio avrebbe magari dato prova di quella che San Paolo chiama “parrhesìa” [4], dicendo esplicitamente queste parole al prete; ma per una monaca femmina sarebbe stato inopportuno replicargli così, e lei rispose perciò in modo … obliquo. In quel parlatorio si era consumata una dinamica di genere simile a quella che affligge i rapporti tra uomini e donne nella vita laicale; la cosa positiva è che la monaca autistica, trattando così quel prete, dimostrò di aver raggiunto alla sua età abilità sociali paragonabili a quelle di una neurotipica.

La seconda cosa è che le persone autistiche sono particolarmente propense alla depressione – un po’ per vulnerabilità genetica, un altro po’ perché i loro difetti, quando non glieli rammentano gli altri, li ricordano molto bene loro stesse. E va ricordato che le donne sono più soggette ad essa degli uomini.

Ci sono vari tipi di depressione, e qui parlo solo di quella che probabilmente aveva Léonie – la “distimìa”, ora chiamata anche “disturbo depressivo persistente”. Essa non ha sintomi eclatanti, ma procura un umore cronicamente depresso (tristezza, mancanza di iniziativa, difficoltà a prendere decisioni, talvolta anche irritabilità), a cui spesso si accompagnano sintomi fisici (alterazioni dell’appetito e del sonno, dolori ipocondriaci, stanchezza, ecc.), e spesso il paziente si lagna assai della sua condizione, perché confronta le sue ambizioni con le sue realizzazioni (svalutate a causa dell’umore depresso), e questo dà il via ad una valanga di rimpianti, rimorsi, recriminazioni e ruminazioni che infastidiscono il prossimo e peggiorano lo stato depressivo.

Di Léonie si ricorda che era una monaca molto umile, tant’è vero che diceva di se stessa che non valeva la pena conoscerla; credo che tanta umiltà sia stata resa possibile dalla sua distimìa, ma quest’umiltà le abbia reso un gran servizio: la persona che la pratica non può indulgere a recriminazioni e ruminazioni, deve accettare se stessa ed il suo passato così come sono, ed evita così una delle cose che possono peggiorare una forma depressiva.

Del resto, uno psichiatra che cura un disturbo dell’umore (tra cui le varie forme di depressione) non cerca di riportare il paziente all’“eutimìa”, ovvero quella che molti chiamano “sana autostima”, perché tale “eutimìa” in realtà nasconde una sopravvalutazione delle proprie qualità e possibilità; per avere una realistica valutazione di quello che si è e quello che si può fare, ci vuole un umore lievemente depresso – meno depresso forse di quello di Léonie, ma mi pare che le sia andata abbastanza bene.

L’umiltà non è una cura risolutiva (ogni tanto la sorella maggiore Marie nelle sue lettere faceva notare a Léonie che stava dando udienza alla tristezza, il che vuol dire che il suo umore ogni tanto peggiorava comunque), ma l’ha aiutata molto conducendola inoltre all’accettazione di sé, ed alla capacità di ridere di se stessa, divertendo assai le consorelle. Le persone Asperger possono sembrare seriose, ma in realtà faticano a capire quello che pensano gli altri, e che cosa li fa ridere – per cui un curioso criterio diagnostico della sindrome, non ufficiale, è un umorismo incomprensibile agli altri.

Léonie, più che invecchiare, si “stagionò”, ed imparò a capire le consorelle e che cosa le divertiva. Le si rimprovera di non aver avuto l’intelligenza e la creatività di Thérese, ma seppe far buon uso delle sue doti.

Non ci sono Asperger senza “interessi speciali”, e quando nel 1898 fu pubblicata la “Storia di un’anima” della sorella Thérese (ricordo ai lettori che la sorella Marie aveva tanto profondamente rimaneggiato l’opera di Thérese che i promotori della causa di beatificazione mangiarono la foglia e pretesero fossero consegnati loro i manoscritti originali – che sono la base delle edizioni contemporanee), l’interesse speciale di Léonie divenne la “piccola via” escogitata dalla sorella, che grazie ad essa sarebbe diventata “Dottore della Chiesa” nel 1997.

Nelle donne Asperger, l’“interesse speciale” spesso non è verso un campo del sapere, ma verso una persona particolare che si vuole imitare in ogni modo – se Thérese da piccola concepì questo interesse per Pauline, Léonie lo avrebbe concepito non solo per l’opera, ma anche per la persona e l’esempio che dava Thérese, ed è nelle azioni di Léonie che si deve cercare ciò che seppe fare di quest’ispirazione.

Non sono cattolico, dovrei astenermi da cose del genere, ma penso che la vita di Léonie possa ispirare un’interessante chiosa alla dottrina della “piccola via”. La biografa riferisce che a settantasei anni Léonie continuava a dar conto alle consorelle del proprio cammino spirituale come l’ultima delle novizie – dev’essere un fenomeno raro, perché le monache più anziane probabilmente se la cavano con poche parole.

Questo tratto è stato considerato una manifestazione di umiltà, obbedienza ed abnegazione estreme, ma penso che qui l’autismo abbia fatto capolino: non solo le persone autistiche che sanno parlare sono delle gran chiacchierone, che riferiscono dettagli la cui importanza è chiara solo a loro (chi mi conosce dice che sto addirittura minimizzando), ma inoltre, proprio perché maturano più lentamente, continuano a considerarsi “in divenire”.

La sorella Marie battezzò la dottrina di Thérese “infanzia spirituale” per sottolineare la debolezza del fedele nei confronti di Dio, che però soccorre chi lo invoca, come un genitore il figlioletto; Thérese si era offerta a Gesù come il suo “giocattolino” (Storia di un’anima, Manoscritto A, 64r°-64v°) – sapendo che, poiché Gesù ha tanti giocattoli nelle anime che vogliono servirlo, gioca un po’ con l’uno ed un po’ con l’altro; Léonie si definiva lo “straccetto” di Gesù, che Gesù usava solo per il tempo indispensabile e poi riponeva.

In queste metafore non c’è l’idea dell’evoluzione del fedele - anzi, quando Thérese dice che Gesù forse è come i bambini che preferiscono giocare con i giocattoli di poco valore, per non rischiare di rompere quelli più preziosi, implicitamente scarta l’ambizione ad evolversi come inopportuna.

Però l’autobiografia di Teresa Sánchez de Cepeda y Ahumada (1515-1582), alias Santa Teresa di Gesù, la (ri)fondatrice del Carmelo Scalzo, e Dottore della Chiesa anch’ella, distingue vari stadi della preghiera a seconda del rapporto che si è stabilito con Dio – e quindi dell’evoluzione che raggiunge il fedele; ed anche il paragonare il rapporto tra Gesù ed il fedele a quello tra un bambino ed il suo genitore che amorevolmente lo aiuta lascia aperta la possibilità che il genitore non solo lo accudisca, ma lo faccia anche crescere.

La soluzione dell’aporia sembra il dare alla grazia il ruolo principale: il fedele non si deve preoccupare, perché sarà Dio a far di lui quello che vuole. È il senso della metafora dell’“ascensore” (Storia di un’anima, Manoscritto C, 2v°-3r°) che dispensa il fedele dallo sforzarsi di salire la dura scala della perfezione, perché saranno le braccia di Gesù a sollevarlo – ma per consentirglielo occorre spogliarsi dell’orgoglio ed ambire alla piccolezza ed alla semplicità d’animo (in Storia di un’anima, Manoscritto A, 71r°, una monaca disse a Thérese: “(…) La sua anima è estremamente semplice, ma quando sarà perfetta, sarà ancora più semplice: più ci si avvicina al Buon Dio, più ci si semplifica”).

Molte persone autistiche si ritengono dei “non-finiti” michelangioleschi: Michelangelo Buonarroti (1475-1564) era troppo indaffarato, e fu spesso interrotto dai tumultuosi eventi dell’Italia del Rinascimento; perciò fu costretto ad abbozzare appena molte sue opere, che non poté finire perché dovette dedicarsi ad altre.

La fortuna sua e nostra è che lui era un grande scultore, e già con i primi colpi di martello e scalpello le sue opere acquisivano valore artistico. La vita di molte persone autistiche (un po’ per l’eterogeneità del profilo cognitivo, ma anche perché diverse hanno pure tratti ADHD che impediscono di concentrarsi su un solo interesse speciale) somiglia ad un’opera d’arte finita in modo irregolare, come appunto molte statue michelangiolesche.

Thérese propose una metafora scultorea: “Vedendo da vicino queste anime innocenti, ho capito che sfortuna era di non formarle bene fin dal risveglio, quando somigliano ad una cera molle sulla quale si può deporre l’impronta delle virtù, ma anche quella del male …” (Storia di un’anima, Manoscritto A, 52v°); io direi che la grazia opera spesso in modo lento, su nature tenaci che è più facile paragonare al marmo che alla cera, con lunghi intervalli in cui “pensa ad altre statue”, e non sempre si può dire dell’opera che è finita.

Léonie insegna a non pensare che la propria evoluzione sia mai terminata.

Raffaele Yona Ladu

Note e link:

[1] Leonia Martin. Un difficile cammino di santità / Emanuela Maria della Trinità [OCD]. – Roma, 2015 : Edizioni OCD.

[2] Thérese, del resto, ha dato un ottimo esempio nella sua autobiografia di come trattare queste situazioni: in Storia di un’anima, Manoscritto C, 30v°-31r°, lei parla di una consorella che faceva stridere le unghie contro i denti durante la preghiera comune della sera, facendo rumore. Questo potrebbe essere un tic della sindrome di Tourette, e posso dire per esperienza personale (ho frequentato diversi convegni su questa sindrome, con delle persone touretiche in mezzo al pubblico – ora le cure ci sono, ma non sempre funzionano) che le persone autistiche vengono spaventate dai rumori che fanno o dai suoni che emettono quelle touretiche – il racconto che fa Thérese delle emozioni che suscitava in lei la consorella perciò minimizza, e le ci volle un’enorme forza di volontà non solo per rimanere indifferente (aveva capito anche lei che dire o far cenno ad un touretico di smetterla peggiora solo la situazione; se si è in una situazione in cui il suono è proprio intollerabile, come durante la registrazione di un disco, si permette a chi ha il tic di uscire un attimo a tranquillizzarsi), ma anche per offrire quello che le stava accadendo a Gesù. Solo in apparenza era un piccolo gesto di carità – le costava molto ogni sera.


[4] La locuzione “ebraica” (in realtà è in aramaico) più affine è “chutzpah klapei shmayah”, grossolanamente traducibile in “sfrontatezza davanti al Cielo”; l’esempio che ne dà il rabbino Harold M. Schulweis [https://www.revolvy.com/main/index.php?s=Chutzpah] è quello di Mosè che (secondo Numeri Rabbà, Hukkat XIX, 3) protesta con Dio per quello che c’è scritto in Esodo 20:25, ovvero che Dio avrebbe chiesto conto ai figli dell’iniquità dei padri, fino alla quarta generazione – una cosa simile Gli ha già rimproverato Abramo quando tentò di salvare Sodoma e Gomorra! L’Eterno viene convinto dalla stringente logica di Mosè ed emana Deuteronomio 24:16, in cui è scritto che ognuno paga le proprie colpe, non quelle dei padri, non quelle dei figli.

L’alta critica biblica dà ovviamente un’altra spiegazione per l’“antinomia”, ovvero la discrepanza tra i due passi (sono opera di due scuole di pensiero diverse) – quello che faccio notare è che nemmeno l’autorità divina è indiscussa per gli ebrei.

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