Noè e Giona, arche e navi, midrashim e Gimbutas

Mi è arrivato il libro “Il linguaggio della Dea / Marija Gimbutas”, che dedica le pagine 246-249 a “La nave del rinnovamento”.

Nel mio commento archetipico a Giona avevo escluso rapporti tra questa figura e Dioniso. Devo ricredermi, ed il tramite mi pare proprio Noè.

Cominciamo a dimostrare che Gimbutas è pertinente al nostro discorso, e la prova ce la dà Rashi di Troyes (rav Shlomo Yitzchaqi, 1040-1105), il principe dei commentatori ebrei, che di Genesi 6:14:

“Fatti un'arca di legno di gofer [cipresso?]; falla a stanze, e spalmala di pece di dentro e di fuori.”


“Molti mezzi di sollievo e soccorso sono a Sua disposizione, e perché mai gli ordinò questa costruzione? Perché lo scorgesse la Generazione del Diluvio, occupato in questo per centovent’anni e gli chiedesse: ‘A che pro lo fai?’, e lui avrebbe risposto: ‘Dio Benedetto porterà un diluvio nel mondo’, e forse si sarebbero pentiti”.

E se si fossero pentiti, questo è il ragionamento di Rashi e degli antichi midrashim a cui si appoggia, il Diluvio non ci sarebbe stato!

L’arca di Noè dunque non era uno scafo qualsiasi: il suo scopo era provocare il rinnovamento dell’umanità – il piano A era quello di spingere gli uomini a tornare a Dio, il piano B di sostituirli.

Purtroppo Noè non fu capace di convincere la Generazione del Diluvio a pentirsi, ed il diluvio divenne inevitabile.

La parola usualmente tradotta come “arca” è l’ebraico “tevah”, che viene dall’egizio “tbt” (cassa, sarcofago; la Tebe egizia è la città dei sarcofaghi), e viene usata in due sole circostanze nella Bibbia ebraica – nella prima designa l’Arca di Noè, nella seconda la cesta su cui fu posto Mosè prima di essere abbandonato sul fiume Nilo.

Nell’ebraico contemporaneo significa anche prosaicamente “scatola”, ma indica pure il pulpito su cui si legge la Torah nelle sinagoghe sefardite (gli ashkenaziti preferiscono il termine “bimah”, che viene invece dal greco “bema”, che nelle chiese cristiane ortodosse designa tuttora l’area riservata al clero).

In ogni caso, nel linguaggio religioso la “tevah” indica una cosa fondamentale per la sopravvivenza dell’ebraismo.

Dopo il diluvio Noè inventa il vino e l’ebbrezza, svolgendo il ruolo di Dioniso, e Marija Gimbutas ricorda a pagina 249 che:

“In febbraio il greco Dioniso, colmo delle forze vitali della vegetazione in fioritura, appare dal mare su una barca e con lui giungono anche le anime dei morti.”

Secondo la tradizione ebraica Mosè nacque il 7 Adar 2368 – ovvero, secondo questo sito che anterga il calendario gregoriano, il 18 febbraio del 1392 AEV.

Direi che un “divino fanciullo” (gli ebrei tengono molto a rimarcare che Mosè era comunque umano) che appare su una “scatola” galleggiante recita il ruolo di Dioniso; ed uno dei nomi della festa di Pasqua è “Chag ha-Aviv = Festa della Primavera”; il lessicografo Jastrow avverte che “aviv” è il periodo in cui iniziano a maturare le spighe d’orzo; Klein ricorda che il verbo “heaviv” significa, in ebraico postbiblico, germogliare.

Giona non usa una “tevah = scatola”, usa una “oniyah = nave”, e questa parola ricorre 31 volte nella Bibbia ebraica, anche indicando delle prosaiche navi commerciali; ma il caso di Giona è peculiare: perché vuol proprio salire su una nave? E perché l’Eterno lo aiuta in questo?

Sulla nave egli vuol salire perché la “Shekhinah = Divina Presenza” si rivela solo in Israele (vedi anche questo libro), e Dio lo aiuta volentieri.

Infatti, secondo i midrashim riassunti dalla Jewish Encyclopedia, a Joppe/Giaffa (che ora fa parte della città di Tel Aviv … ma guarda un po’!) non c’era una nave in porto; ma l’Eterno mandò un forte vento contrario ad una sola di quelle che erano già salpate, che fu rimandata a Joppe proprio per imbarcare Giona.

Lui non era uno stupido, e si era probabilmente reso conto di trovarsi di fronte ad un prodigio – ma dovette credere che l’Eterno avesse accettato di buon grado la rinuncia alla sua missione.

Invece l’Eterno aveva deciso di rinnovarlo dentro. Il sonno dentro la nave corrispondeva alla prima fase dell’iniziazione ai misteri, ed il pesce che avrebbe ingoiato Giona era un simbolo della Dea non meno della Nave.

Dioniso approda su una nave, Giona viene sputato dal pesce, appunto altro simbolo della Dea.

Lo Zohar si permette una raffinatezza: secondo lui, Giona morì non appena gettato in mare, la sua anima salì davanti al Trono di Dio, dove fu giudicata e poi rimandata al suo corpo, che il pesce aveva già ingoiato. Il pesce morì quando Giona toccò la sua bocca, ma fu risuscitato anch’egli.

Delle altre cose che riferisce la Jewish Encyclopedia, una curiosa è la genealogia attribuita a Giona da alcuni midrashim: sarebbe stato il figlio della vedova di Sarepta risuscitato da Elia.

Con un interessante corollario: Elia era un “cohen”, ovvero di stirpe sacerdotale; per lui non solo toccare un ebreo defunto, ma anche stare nella stessa casa in cui c’era l’ebreo defunto, avrebbe significato contrarre impurità da cadavere, la quale deve essere assolutamente evitata da un “cohen”.

Tanto per intenderci, il Maimonides Medical Center di New York City ha un impianto di luci di emergenza apposito per avvertire i “kohanim” che nell'ospedale c'è un morto e devono uscire al più presto, per non contrarre l'impurità da cadavere.

La conclusione dei midrashim è che il figlio non era ebreo – così Elia potè “portarlo al petto” per risuscitarlo senza conseguenze - e neppure sua madre, la vedova di Sarepta, lo era.

E questo spiega anche perché Elia avesse evitato di sposare la vedovella, anche se le premesse c’erano tutte: un matrimonio tra ebrei e non ebrei è vietato, un matrimonio tra un “cohen” ed una che non è ebrea per nascita lo squalifica – se anche sposa una donna divenuta ebrea per conversione, perde la sua qualifica sacerdotale.

Secondo questi midrashim, Giona non era pertanto ebreo per nascita; eppure Eliseo lo ordinò profeta, e per suo ordine unse Iehu re d’Israele. E Dio lo scelse per una missione tanto delicata come convertire i Niniviti.





P. S. 1: Tel Aviv è stata fondata nel 1909, ed il suo nome significa letteralmente “Collina della Primavera”; il toponimo si trova nella Bibbia ebraica (Ezechiele 3:15), ma indica una località babilonese.

Pare che le cose stiano così: Theodor Herzl pubblicò nel 1902 un romanzo utopico su come si sarebbe svolta la vita nello “Stato degli Ebrei”, in lingua tedesca ed intitolato “Altneuland = La terra vecchia e nuova”; fu tradotto in ebraico da Nahum Sokolov, che gli diede appunto il titolo di “Tel Aviv”, volendo creare un contrasto tra il “Tell = collina che copre antiche rovine” ed “Aviv = rigoglio primaverile”. Quando fu fondata la città, i suoi utopistici fondatori vollero dargli il più bel nome che venne in mente loro.



P. S. 2: Molto curioso: lascio il nome Eliyahu perché più non mi si confà, e scelgo quello di Yona, profeta nato da madre non ebrea, ma che deve la vita proprio ad Eliyahu. L’originale voleva scappare dall’Eterno, io da Elia – e nessuno dei due ci riesce!

Nel post in cui tentavo un’analisi archetipica di Elia, avevo accennato al potere di Asclepio di risuscitare i morti – ma avevo taciuto di una cosa che accomuna i miti di Asclepio e Dioniso: l’essere stati estratti dal grembo della loro madre morta.

Alcmena, gravida di Zeus, commette l’errore fatale di chiedere al dio di mostrarsi in tutta la sua gloria – e Zeus l’accontenta senza prendere le precauzioni che prende YHWH quando Mosè gli chiede la stessa cosa (Esodo 33:12-23), incenerendola. Zeus, con l’aiuto di Ermete, estrae il feto di Dioniso e se lo cuce dentro la coscia, facendogli così proseguire la gestazione.

Coronide, gravida di Apollo, lo tradisce, e quando il corvo sacro ad Apollo gli riferisce il misfatto, Apollo, ignaro del suo stato, la uccide. Riesce ad estrarre il feto di Asclepio e lo affida al centauro Chirone, che lo fa vivere e diventare il dio della medicina dopo Apollo (vedi qui).

Come Apollo salva Asclepio nel mito greco, così Elia salva Giona nel midrash (e senza ammazzare sua madre!). Se nel mito greco il corvo fa la spia (analogamente al mito nordico di Wotan, che ha i corvi Huginn e Muninn che lo informano sui fatti e misfatti degli uomini), nella Bibbia sono i corvi a nutrire Elia finché vive nel deserto e prima di incontrare la vedova di Sarepta.



P. S. 3: Il fatto che un “cohen”, se sposa una donna ebrea per conversione, perde la sua “kohanut = qualifica sacerdotale” è tuttora preso molto sul serio dagli ebrei ortodossi. Ho conosciuto (ma non lo vedo da anni) un signore che discendeva da una lunga genealogia di “kohanim = sacerdoti”, che da giovane faceva il venditore ambulante di tappeti, ed aveva incontrato una bella donna cristiana.

La donna era pronta a convertirsi all’ebraismo per sposarlo, ma questo non bastava. Molti ebrei cercarono di dissuadere quell’uomo, ed un giorno perfino un famoso rabbino gli disse: “Abbiamo combinato per te il matrimonio con la figlia ebrea di un banchiere ebreo di New York City, se tu la lasci”.

Quell’uomo disse di no, ed alla fine si presentò in sinagoga per sposare la sua donna (ormai convertita) con rito ebraico. Tutto bene, ma … il rabbino gli mostrò un foglio da firmare su cui era scritto che lui, sposando lei, rinunciava alla sua “kohanut”.

“Matrimonio in sinagoga? Ma nemmeno per sogno!”, pensò quell’uomo, ed alla fine sposò la sua donna solo civilmente. Dal punto di vista ebraico, quel matrimonio non esisteva, e quindi lui era pur sempre un “cohen”.

Non finirono qui i problemi: mandarono la figlia a studiare alla scuola ebraica (si fa pagare, ma insegna bene), ed una delle insegnanti un giorno le disse: “Sei brava nelle materie ebraiche. Se vuoi convertirti all’ebraismo, metto una buona parola!”

L’inviperita mammina (non nasci madre ebrea - ti ci fanno diventare!) pensò bene di mandare all’incauta insegnante copia di tutti i certificati che dimostravano che la figlia era ebrea figlia di ebrea ed ebreo, e che perciò non si sognasse più di dire fesserie!

Comunque, la gentile signora concluse che, come tutte le coppie, anche lei e suo marito talvolta litigavano. Ma anche se la crisi si faceva grave, il ricordo di quello che aveva fatto lui per lei, di ciò a cui aveva rinunciato per lei, la aiutava a superare la crisi.

E non è mica l’unica cosa stupefacente della famiglia!

Il signore discende da un’antica famiglia di ebrei di … Bukhara (Uzbekistan), che commerciavano guidando carovane di cammelli fino in Afghanistan.

Non era una vita facile quella del cammelliere – occorreva attraversare i deserti più caldi del globo e guardarsi dai briganti; e poiché non si usavano cambiali o simili in quella parte del mondo, occorreva dormire con il sacco delle monete per cuscino - ed una volta dovettero inseguire il cammello che lo portava, ed era fuggito nella notte!

Quella famiglia fu coinvolta nella rivoluzione russa: un giorno li fermò un commissario politico sovietico, ed interrogò i capifamiglia, che temettero che lui volesse ammazzarli e confiscare la carovana.

Il modo in cui guardava alle loro scarpe non era incoraggiante, ma il commissario voleva solo avere informazioni sull’Afghanistan, e non torse loro un capello.

Molti ebrei sentono il richiamo della Terra Promessa, ed anche quella famiglia decise di immigrare in Israele. Purtroppo, come erano stati bravi con i cammelli, non lo furono con le mucche che decisero di allevare in Israele, che divorarono i loro soldi anziché l’erba del paese.

Così fu che quel signore che si sarebbe innamorato di una bella cristiana venne a cercare fortuna in Italia – e quando l’ho conosciuto era diventato un gran signore.

Ma prima di cercar fortuna, si rese protagonista di un altro delizioso episodio: quand’era bambino, la sua famiglia abitava a Gerusalemme, e durante la Seconda Guerra Mondiale (doveva essere il 1942 - Rommel non era ancora stato sconfitto ad El Alamein) un ufficiale inglese lo riportò a casa e pregò la famiglia di tenerlo dentro.

Infatti si era messo a giocare per strada proprio quando stava per passare una colonna di carri armati, e per non travolgerlo tutta la colonna si era fermata!

Di quell’episodio, a sessant’anni di distanza, la famiglia rideva ancora – io deduco che non ci può essere equivalenza tra nazisti ed antinazisti, perché i nazisti lo avrebbero sicuramente investito.

Riferisco questa storia perché non voglio che si perda, anche se cercato di camuffare la famiglia di cui parlo.

Mi è stato detto che ho tanta fantasia, e questa è una mia dote; ma ogni famiglia ebraica è un pozzo senza fondo di storie che abbracciano il mondo intero. Conoscerle sviluppa la fantasia per forza!

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